I fratelli Bagnasco
Io sto via da casa mesi e mesi, talvolta anni. Torno ogni tanto e la mia casa è sempre in cima alla collina, rossiccia per un vecchio intonaco che la fa intravedere da lontano tra gli olivi fitti come fumo. É una casa antica, con archi di volte che sembrano ponti, con sui muri simboli massonici messi dai miei vecchi per far scappare i preti. In casa c’è mio fratello, che è sempre in giro per il mondo anche lui ma torna a casa più spesso di me e io tornando ce lo ritrovo sempre. Torna e subito si dà d’attorno finché non scova la sua cacciatora, il suo gilecco di fustagno, i suoi calzoni col fondo di cuoio, e non sceglie la pipa che tira meglio, e fuma.
- Oh, - mi fa quando arrivo, e magari sono anni che non ci si vede e lui non s’aspettava che arrivassi. - Alò, - dico io, e questo non perché ci sia dell’astio tra di noi, ché se ci si incontrasse in un’altra città ci si farebbe delle feste, magari ci si darebbe delle manate sulle spalle, - Guarda, guarda! - ci si direbbe, ma perché a casa nostra è diverso, a casa nostra si è sempre usato così.
Allora entriamo in casa tutt’e due, con le mani in tasca, zitti, un po’ impacciati e tutt’a un tratto mio fratello comincia a parlare come se avessimo interrotto un discorso allora allora.
- Ieri notte, - dice, - il figlio della Giacinta voleva fare una brutta fine.
- Sparargli, dovevi, - dico io, anche se non so di cosa si tratta. Pure, avremmo voglia di chiederci l’un l’altro donde veniamo, che mestiere facciamo, se guadagnamo, se abbiamo preso moglie, se fatto figli, ma c’è tempo a chiedercelo poi, adesso sarebbe contrario alle usanze.
- Sai che la notte di venerdì è il turno nostro per l’acqua del Pozzo Lungo, - dice lui.
- Venerdì notte, è, - assicuro io, che non me lo ricordavo e forse non l’avevo mai saputo.
- Tu credi che noi ogni venerdì notte abbiamo l’acqua nel nostro? - dice. - Se la girano nel loro, se non si sta lì a far la guardia. Ieri notte passo di lì saran state le undici e vedo uno che corre con una zappa: il roglio era girato in quello di Giacinta.
- Sparargli, dovevi! - dico io e già sono pieno di rabbia: da mesi e mesi mi ero dimenticato che esistesse la questione dell’acqua del Pozzo Lungo, tra una settimana ripartirò e tornerò a dimenticarmene, pure adesso sono carico di rabbia per l’acqua che ci hanno rubato in quei mesi passati e che ci ruberanno in quei mesi venturi.
Intanto giro per le scale e le stanze, con mio fratello dietro che soffia nella pipa, per le scale e le stanze con appesi fucili antichi e nuovi e borracce per la polvere e corni da caccia e teste di camosci. Le scale e le stanze sanno di rinchiuso e di tarlato, con sui muri simboli massonici invece di crocifissi. Mio fratello racconta di tutto quello che rubano i manenti, dei raccolti che vanno a male, delle capre altrui che pascolano nei nostri prati, del nostro bosco dove va a far legna tutta la vallata. E io vado tirando fuori dagli stipi giubbe, gambali, gilecchi con tasche lunghe torno torno per metterci le cartucce e mi tolgo i vestiti gualciti della città e mi guardo negli specchi tutto bardato di cuoio e di fustagno.
Di lì a un po’ andiamo giù per la mulattiera con le doppiette a tracolla, a vedere di sparare qualche colpo al volo o a fermo. Non abbiamo fatto cento passi che ci arriva una gragnuola di ghiaino nel collo, tirata forte, sembra con una fionda. Invece di voltarci subito, facciamo finta di niente e proseguiamo tenendo d’occhio il muro della vigna sopra la strada. Tra le foglie grige di solfato fa capolino la faccia di un ragazzetto, una faccia tonda e rossa con lentiggini che gli s’affollano sotto gli occhi, come una pesca mangiata dagli àfidi.
- Perdio, mettono su anche i bambini contro di noi! - dico, e comincio a sacramentargli contro.
Quello s’affaccia ancora, fa un versaccio con la lingua e scappa. Mio fratello prende per il cancello della vigna e si mette a rincorrerlo per i filari, calpestando i seminati, con me dietro, finché non lo mettiamo in mezzo. Mio fratello lo acciuffa per i capelli, io per le orecchie, capisco che gli faccio male, pure tiro, sento che più gli faccio male più m’arrabbio e gridiamo:
- Questo è per te e il resto sarà per tuo padre che ti ha mandato.
Il ragazzo piange, mi morde un dito e scappa; una donna nera si fa in fondo ai filari, gli nasconde la testa nelle pieghe del grembiule e comincia a gridare contro di noi agitando un pugno:
- Vigliacchi! Pigliarvela con un bambino! Sempre gli stessi prepotenti siete. Troverete chi vi dà il fatto vostro, non dubitate!
Ma noi già ce ne siamo andati per la nostra strada stringendoci nelle spalle perché alle donne non si risponde.
Andiamo, e incontriamo due, carichi di fascine che vengono avanti piegati a angolo retto dal peso.
- Ehi, voi due, - li facciamo fermare, - dove avete preso questa legna?
- Dove ci pare, - dicono e vorrebbero tirare avanti.
- Ché se l’avete presa nel nostro bosco ve la facciamo riportare e in più sugli alberi vi si appende voialtri.
Quelli hanno posato il carico sul muricciolo e ci guardano sudati di sotto il cappuccio di sacco che protegge loro testa e spalle.
- Noi non sappiamo di vostro o di non vostro. Noi non vi si conosce.
Difatti sembrano gente nuova, forse disoccupati che si son messi a far legna. Ragione di più per farci conoscere.
- I Bagnasco siamo. Mai sentito?
- Noi non sappiamo niente di nessuno. La legna l’abbiamo fatta in quello del Comune.
- In quello del Comune c’è proibito. Noi chiamiamo una guardia e vi facciamo metter dentro.
- Eh, va’ che sappiamo chi siete, - salta fuori uno di loro. - Volete che non vi si conosca, sempre pronti a piantar grane alla povera gente! Ma la finirà una volta!
Io comincio: - La finirà cosa? - poi decidiamo di lasciar perdere e ci allontaniamo imprecando a vicenda.
Ora, mio fratello e io, quando siamo in qualche altro paese, discorriamo coi tranvieri, coi giornalai, passiamo la cicca a chi ce la chiede, chiediamo la cicca a chi ce la passa. Qui è diverso, qui siamo sempre stati così, giriamo con la doppietta e piantiamo dei baccani dappertutto.
All’osteria del passo c’è la sede dei comunisti: fuori c’è la tabella con dei ritagli di giornale e delle scritte appiccicate con puntine. Passando vediamo affissa una poesia che dice che i signori son sempre gli stessi e quelli che facevano i prepotenti prima sono i fratelli di quelli che lo fanno adesso. «I fratelli» è sottolineato perché è tutto un doppio senso contro di noi. Noi scriviamo sul foglio: «Vigliacchi e bugiardi», poi firmiamo: «Bagnasco Giacomo e Bagnasco Michele».
Eppure quando siamo via mangiamo minestra sulle tavolate fredde d’incerato dove mangiano gli altri uomini che lavorano lontano da casa, e scaviamo con l’unghia nella mollica del pane grigio e fangoso; e allora il vicino di tavola parla delle cose che ci sono sul giornale, e anche noi diciamo: - C’è ancora dei prepotenti al mondo! Ma un giorno andrà meglio. - Ora, qui, non si riuscirebbe; qui ci sono le terre che non producono, i manenti che rubano, i braccianti che dormono sul lavoro, la gente che quando passiamo ci sputa dietro perché non vogliamo lavorare la nostra terra e - dicono - siamo buoni solo a sfruttare gli altri.
Arriviamo a un posto dove dovrebbe esserci il passo dei colombacci e ci cerchiamo due posti per aspettare. Ma subito ci stanchiamo di star fermi e mio fratello mi insegna una casa dove stanno delle sorelle, e fischia a una che è la sua ganza. Quella scende: ha il petto largo e le gambe pelose.
- Di’, vedi se viene anche tua sorella Adelina che c’è mio fratello Michele, - le dice lui.
La ragazza torna in casa e io mi informo da mio fratello: - É bella, è bella?
Mio fratello non si pronuncia: - É grassa. Ci sta.
Vengono fuori le due, e la mia è proprio grassa e grande e per un pomeriggio come quello può andar bene. Dapprima vorrebbero far delle storie e dicono che non possono farsi vedere in giro con noi perché se no si fanno nemici tutti quelli della vallata, ma noi diciamo loro di non far le stupide e le portiamo in quel campo, nei posti dove aspettavamo i colombacci. Mio fratello anzi ogni tanto trova modo di sparare un colpo; lui è abituato a portarsi la ragazza sulla caccia.
Dopo un po’ che sono lì con l’Adelina, mi sento arrivare tra capo e collo un’altra sventagliata di ghiaino. Vedo il ragazzo delle lentiggini che scappa, ma non ho voglia di rincorrerlo e gli sacramento dietro.
Alla fine le ragazze dicono che devono andare alla benedizione.
- Andatevene e non state più a capitarci tra i piedi, - diciamo.
Poi mio fratello mi spiega che sono le due più vacche della vallata e hanno paura che gli altri giovanotti a vederle insieme a noi per dispetto non vadano più loro insieme. Io grido al vento: - Vacche! - ma in fondo mi dispiace che con noi vengano solo le due più vacche della vallata.
Sul sagrato di San Cosimo e Damiano c’è tutta la gente che aspetta la benedizione. Ci fanno largo e tutti ci guardano male, anche il prete, perché noi Bagnasco da tre generazioni non andiamo più a messa.
Andando avanti sentiamo qualcosa che ci cade vicino. - Il ragazzo! - gridiamo e stiamo già per scattare a rincorrerlo. Ma è una nespola marcita che s’è staccata da un ramo. Continuiamo a camminare, prendendo a calci le pietre.